di: Carlotta Pairotti e Simone Poncini 
Volerelaluna.it 

Spostiamo Mari e Monti (https://www.facebook.com/spostiamo) è un’associazione di promozione sociale che unisce il viaggio – lungo, faticoso, lento, seduti su un pullman per molte ore – all’educazione alla cittadinanza attiva, promuovendo la creazione di una comunità che si pone delle domande e cerca di darvi risposte. La formazione di un gruppo di giovani consapevoli del loro ruolo in una società che sembra volerli allontanare dalla politica e dalla cittadinanza è uno degli obiettivi per non fermarsi dove le ingiustizie sembrano prevalere sul senso di umanità. L’associazione ha iniziato il suo cammino l’anno scorso, a Riace, borgo dell’Appenino calabro a pochi chilometri dal mare, balzato alle cronache per il modello di accoglienza, costato caro al suo ex primo cittadino Domenico Lucano, tutt’oggi coinvolto in un’assurda vicenda giudiziaria (https://volerelaluna.it/cultura/2018/12/10/riace-una-storia-italiana/). All’esito del campeggio dell’estate 2020 si è deciso di dare corpo al primo nucleo di questa comunità e, anche grazie alla collaborazione con Volere la luna e al supporto dei Comuni di Nichelino e Pino Torinese, l’iniziativa è stata replicata, con una cinquantina di ragazzi e ragazze, dal 17 al 23 agosto scorso. 

Due i poli, opposti e contraddittori, di questa esperienza. 

1.

Da un lato Riace, appunto, dove, in questa intensa settimana è stato inaugurato il Forno sociale dei popoli, nell’ambito del progetto di costruzione di forni solidali “Impastiamo umanità” portato avanti dalla comunità Laudato Si’ (www.comunitalaudatosi.org) già attivo a Stupinigi (Torino) che prevede la panificazione sociale e la cottura in un forno a legna di un pane prodotto con farine locali e lievito madre e distribuito gratuitamente alle famiglie che più soffrono la crisi economica. Domenico Lucano, quando ha saputo dell’iniziativa, ha voluto replicare il forno proprio a Riace, per realizzare un luogo di ritrovo e di socialità all’interno del villaggio globale, recuperando un vecchio forno e rimettendolo in funzione.

Nel giorno dell’inaugurazione, oltre a impastare il pane, abbiamo “impastato umanità” insieme ai migranti e ai riacesi che vivono insieme nel borgo. Un forno dei popoli perché le persone che arrivano a Riace da tutti i Paesi del mondo, possano mangiare un alimento come il pane: tanto semplice quanto fondamentale. Per produrlo è necessaria una comunità: dal fornaio, all’agricoltore al muratore che costruisce il forno. Oltre alla comunità Laudato si’, è stata coinvolta nell’inaugurazione del forno la Cooperativa Nelson Mandela. Con i suoi prodotti abbiamo fatto panini e festeggiato con bambini e adulti, provenienti da Paesi lontani e diversi, uniti dalla volontà di creare una società caratterizzata dall’integrazione.

La Cooperativa si occupa di riscatto sociale fornendo un lavoro dignitoso a chi si trova in posizione svantaggiata. Tra i suoi lavoratori ci sono migranti, tolti da situazioni critiche che non offrono nessuna opportunità, a cui vengono dati una casa e un lavoro. Oltre ai migranti, la Cooperativa assume ex carcerati per dar loro una possibilità alternativa a quella di rientrare nel giro della malavita. L’obiettivo è semplice, anche se non facile: coltivare i prodotti con le antiche conoscenze, senza sovraccaricare il terreno fino a renderlo sterile, creare dal raccolto marmellate, liquori, conserve trasformando le materie prime in prodotti vendibili e rigorosamente a chilometro zero, sostenendo l’ambiente ed evitando l’agricoltura intensiva, consentendo a chi arriva da territori lontani di iniziare una nuova vita.

Dall’altro lato San Ferdinando, a meno di dieci chilometri dal porto di Gioia Tauro, dove c’è la famosa tendopoli, un ghetto a cielo aperto che nei tempi della raccolta degli agrumi, tra ottobre e marzo, conta circa 700 braccianti in cerca di un lavoro regolare e in attesa di ottenere il permesso di soggiorno, unica speranza di un futuro dignitoso lontano da sfruttamenti, maltrattamenti e violazioni dei più basilari diritti umani. L’aria che si respira non ha niente a che fare con il resto della costa tirrenica calabrese: la vegetazione è incolta, la piana dove prima c’era la tendopoli autogestita (smantellata nel 2018 a seguito di un incendio) è spoglia e le tonnellate di spazzatura ammassate in ogni angolo trasmettono un fortissimo senso di abbandono. Non sembra un luogo reale, vissuto e arricchito dal multiculturalismo.

C’è una schiera di tende blu con il logo del Ministero dell’Interno, ordinate in file e chiuse da un recinto in cui, fino a qualche mese fa, si poteva accedere solo tramite riconoscimento facciale, con rigidi controlli da parte delle forze dell’ordine che presidiavano la tendopoli 24 ore su 24, tutti i giorni della settimana. Stranamente il giorno del nostro arrivo la situazione sembrava più calma. Abbiamo parlato con alcuni migranti, che ora possono uscire ed entrare senza troppe restrizioni e che ci hanno raccontato le loro storie, dandoci il quadro di come realmente viene gestita l’accoglienza nel nostro Paese. Inutile girarci attorno: è un limbo infernale dal quale i ragazzi “ospiti” (parliamo di ragazzi poiché l’età media è di 32 anni) non sanno come uscire. «Se tutti avessimo i documenti, qua non ci sarebbe nessuno, potete starne certi» sono le parole che emergono dai racconti di odissee senza fine che partono dall’Africa, passano per la Libia, sbarcano a Lampedusa, sostano in una delle 80 San Ferdinando sparse per l’Italia, si spostano in Spagna, Germania, Francia per poi ritornare nuovamente in Italia. Chi è più fortunato dopo qualche anno ottiene i documenti e, usufruendo dei diritti garantiti dalla Convenzione di Dublino, riesce partire una volta per tutte.

Ma c’è anche chi è bloccato in questi continui spostamenti da 9 o 10 anni, sentendosi dare sempre le stesse risposte da istituzioni che preferiscono abbandonarli nelle mani di chi li vede solo come forza lavoro intercambiabile, guardando esclusivamente ai propri interessi e guadagni, calpestando la dignità personale e violando le leggi che tutelano i lavoratori. La condizione di incertezza quotidiana ha cambiato i migranti: i loro sguardi sono spenti, la voce spezzata. Il lavoro nei campi, unica possibilità di impiego offerta dal territorio, va dalle 12 alle 16 ore giornaliere retribuite 25 euro al giorno, che possono salire a 40 solo per chi è più fortunato e lavora in un ambiente protetto, magari offerto da una delle cooperative che cerca di offrire un lavoro all’insegna della legalità e del rispetto dei diritti. Data questa situazione le parole che abbiamo ascoltato ci hanno trasmesso solo una grande sfiducia, la mancanza di ogni speranza, una sofferenza tangibile che entrava fin dentro le ossa.

A fronte di questa duplicità di storie e di esperienze ci siamo chiesti se ciò che stavamo facendo aveva un senso, se poteva contribuire a cambiare qualcosa. Al primo impatto ci siamo sentiti impotenti. Nessuno di noi, infatti, ha il potere di trasferire gli “ospiti” di San Ferdinando in una casa degna di questo nome o di procurare loro i documenti necessari. E abbiamo constatato che chi lo ha fatto mettendoci la faccia è stato distrutto da quelle stesse istituzioni che lo avrebbero dovuto supportare e incoraggiare (https://volerelaluna.it/commenti/2019/04/29/domenico-lucano-litalia-la-giustizia/).

Eppure, abbiamo capito che non dobbiamo arrenderci. Questa esperienza ci ha spronati a riflettere e raccontare, ci ha insegnato che l’umanità, la solidarietà, l’integrazione e il riscatto sociale possono avvenire. E che ci sono migliaia di associazioni e volontari che si mettono in gioco ogni giorno e perseguono questi valori che sembrano dimenticati. Nulla è perduto. Tutto è da costruire e il modo migliore per farlo è educare le menti, allenarle al senso critico e alla voglia di cambiamento. È impossibile rimanere indifferenti davanti a queste storie. Forse non ci siamo mai realmente resi conto di quanto dire “siamo tutti uguali” sia un eufemismo: uguali non lo siamo affatto, i privilegi esistono e dipendono esclusivamente da dove nasciamo. Ciò che possiamo e dobbiamo fare è metterci in gioco e usare le nostre capacità per eliminare queste disparità. Per contribuire a far sì che il modello d’accoglienza non sia quello di San Ferdinando ma quello di Riace che abbiamo visto coi nostri occhi e impastato con le nostre mani.